L’arte Gaia / ad Arte recensione di Daniele Rizzo
Recensione di Persinsala
Basterebbero le cifre, accompagnate dal significativo e positivo riscontro del pubblico, a restituire la portata di quanto realizzato da Igor Mattei e Marina Biondi nella quasi totale assenza di risorse economiche e nel sostanziale silenzio delle istituzioni (non sembrano, poi, così lontane le Considerazioni inattuali dedicate da Friedrich Nietzsche a Richard Wagner: «nell’economia spirituale dei nostri uomini di cultura, l’arte viene considerata oggi un bisogno del tutto falso o indegno e degradante, un nulla o un cattivo qualcosa»).
Tuttavia, non è sulla quantità che un festival come Ad Arte – che, nel corso di questi tre giorni, ha assunto i contorni dell’autentica impresa – denota il proprio senso. Perché, pur nel rispetto dei numeri, fondamentale termometro dello stato dell’arte (a meno che non ci si voglia riparare nell’ipocrita convinzione che il pubblico non capisca o non sia pronto ad andare oltre i grandi nomi), Ad Arte lancia la propria sfida sulla qualità creativa, sulla convinzione che guardare in alto senza curarsi di quanto manchi alla vetta sia l’unico modo per dare valore a un progetto di resistenza e resilienza che, altrimenti, nell’infinita – a volte infima – estate festivaliera dello stivale, correrebbe il rischio di disperdere la propria esistenza.
In questo nostro articolo di chiusura, approfondiremo solamente tre eventi, perché, a nostro modo di vedere, paradigmatici del potere dionisiano di un’arte figlia legittima di consapevolezza autorale e padronanza attorale, dunque orfana delle astrusità sperimentali tipiche di chi anela ambizioni fuori portata.
Il primo, inscenato alla Rupe Maggiore, è Il cantico dei cantici, uno spettacolo di #SIneNOmine, un progetto di teatro integrato con il Carcere di Massima sicurezza di Maiano (Spoleto), diretto da Giorgio Flamini e splendidamente interpretato dal detenuto Roberto Di Sibbio e dalle attrici Diletta Masetti e Sara Ragni. Un progetto che rilegge uno dei più importanti testi poetici presenti nella Bibbia per sublimare nella condizione di estraneità all’eros cui sono condannati i suoi protagonisti la deprivazione sentimentale cui – in totale sfregio all’articolo 27 della Costituzione Italiana («Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato») – sono costretti i reclusi nelle carceri.
Il testo, nella traduzione di Guido Ceronetti e nel montaggio proposto, è sontuoso nel connettere la fantasia dell’amore alla condizione concreta dei detenuti, a un contesto in cui la realtà si presenta spesso quale sogno perduto sul solco tra rimpianti e rimorsi, e ogni mancanza aggiunge sofferenza alla pena. Roberto Di Sibbio regge con fierezza il confronto con le compagne, confessa la purezza del proprio turbamento («Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo») e si strugge nel desiderio di grazie che, però, potrà solo cantare («quanto sono soavi le tue carezze, sorella mia, sposa […] Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa,c’è miele e latte sotto la tua lingua») e mai raggiungere («Giardino chiuso tu sei, sorella mia, sposa»). Diletta Masetti e Sara Ragni sono donne ferite e orgoliose nella vocalità, possenti nella presenza e vibranti nel declamare l’amore per il loro «diletto» che somiglia «a un capriolo o ad un cerbiatto», ma soprattutto infelici nel constatare l’assenza del proprio soggetto di amore («Ho aperto allora al mio diletto, ma il mio diletto già se n’era andato, era scomparso. Io venni meno, per la sua scomparsa. L’ho cercato, ma non l’ho trovato, l’ho chiamato, ma non m’ha risposto»).
Alla Rupe degli Scorpioni, invece, ha trovato magnifica contestualizzazione il monologo del fool Giuseppe Pestillo, Pazzo ad arte. Un gioco meraviglioso che l’attore romano ha intrattenuto con il pubblico, invitandolo in prima persona a prendere le silenti parti dei vari Laerte, Ofelia e Rinaldo e a partecipare alle fantasie di un fanciullino che scherza a essere i vari personaggi dell’Amleto (Amleto, Laerte, Polonio, Claudio, il becchino). L’immedesimazione di Pestillo è sostenuta da una mirabile naturalezza interpretativa, mentre la spontanea ambientazione calcatese risulta perfetta per avvicinare al senso comune il verbo shakesperiano, a sua volta adattato a lungo e spassionato monologo.
La medesima Rupe ha poi visto l’esecuzione del breve, troppo breve, concerto del polistrumentista Edu Nofri, la cui ironica conduzione ha offerto l’intensità di canti e sonorità dalla terra natìa, il Brasile. Il concerto, di grande suggestione, è stato impreziosito dalla presenza di Davide Latini alla chitarra elettrica e dei musicisti della Grotta Sonora di Calcata, Madhava Carrara (delicatissimo al Darbuka e al Tamburo Armonico) e Margherita Cioffi (di sconcertante dolcezza al canto in sanscrito).
Il cantico dei cantici , Pazzo ad arte, Edu Nofri, Te Absolvo con Igor Mattei protagonista (intervistato dalla nostra Simona Ventura) e tutti gli altri sono eventi dunque diversissimi tra loro, ma che insieme concorrono a confermare la bontà della semplicissima intenzione che sta alla base di Ad Arte e su cui Igor Mattei e Marina Biondi continuano a persistere e perseverare, ossia sganciare l’idea dell’impegno dall’intellettualismo e del suo opposto dal didascalico (pecche gravemente riscontrate, per esempio, in Über Raffiche -nude expanded version, spettacolo di cartello di una kermesse blasonata come Santarcangelo).
Perché anche l’arte come «la sfera della conoscenza deve essere unita a quella della gioia» (La gaia scienza, Friedrich Nietzsche) e «c’è sempre un grano di pazzia nell’amore. D’altra parte c’è sempre anche un po’ di ragione nella follia» (Così parlò Zarathustra, Friedrich Nietzsche).
Gli spettacoli sono andati in scena all’interno di Ad Arte Teatro Cine Festival
location varie, Calcata
3 settembre, dalle 11:30
Il cantico dei cantici
traduzione di Guido Ceronetti
con Roberto Di Sibbio, Diletta Masetti e Sara Ragni
diretto da Giorgio Flamini